Quando una capra viene salvata dal suo formaggio: ecco la storia della capra girgentana
Conservato gelosamente, nel cassetto del comò, tra i ricordi della nonna di Turiddu un vecchio disegno in carboncino un po’ scolorito. Un piccolo ritratto, dai tratti delicati, di una bambina e una capretta dallo sguardo vispo. Un oggetto decisamente insolito per una donna come la nonna.
Scoprirne l’origine non fu molto complicato, almeno per Turiddu che sapeva bene come ottenere le informazioni che voleva. Quel disegno le era stato regalato, al termine di una vacanza nella campagna agrigentina, dal figlio del capraio. Un certo Calogero Vella, che tutti chiamavano Lillo.
Lillo accompagnava il padre ogni mattina per le strade del paese per la consueta mungitura “porta a porta”. Costume ancora diffuso nel primo Dopoguerra, soprattutto nei piccoli centri agricoli dell’isola.
Le capre dei Vella avevano il pelo lungo e corna lunghissime e arrotolate. Producevano, però, un latte molto buono e dal sapore più delicato del classico latte di capra.

Credit Foto @veramero
Erano capre di razza girgentana, ruminanti originari dell’Asia arrivati in Sicilia con l’invasione araba dell’800 d.C, il cui latte era leggero, digeribile e per nulla allergenico.
Tanto che le massaie lo compravano soprattutto per gli anziani e i bambini.
Questo tipo di capra, molto diffusa soprattutto nella provincia di Agrigento (dalla quale prende infatti il nome), ha rischiato di estinguersi dopo gli anni Cinquanta, quando i capi di allevamento si sono ridotti drasticamente passando da 30 mila esemplari a poco meno di 500.
Allevarla, infatti, richiede costi e tempi più alti rispetto ad altri tipi di capra: basti pensare, ad esempio, all’attenzione da dedicare alle sue scenografiche corna. Presenti sia nei maschi che nelle femmine possono raggiungere lunghezze anche di 70 cm. Per evitare che si curvino, quindi, i pastori le bagnano in acqua calda e le infilano in tubi di ferro avvolti nel panno, in modo che le spirali si formino regolari e le corna erette non si divarichino.
Giacomo Gatì: l’emigrato siciliano che ha salvato la girgentana dall’estinzione
A un uomo, e pochi altri, in particolare si deve il salvataggio di questa razza preziosa, Giacomo Gatì. Colui che, emigrato in Germania per fuggire dalla vita dei campi, rientrò in patria, dieci anni dopo (all’inizio degli anni ’80) con un progetto innovativo per i tempi: l’agricoltura biologica.
Una cooperativa prima, una fattoria in bio architettura poi, furono questi i primi passi verso l’attività che lo avrebbe reso conosciuto in tutto il territorio: la produzione di formaggi di latte di capra girgentana.
Gatì era letteralmente innamorato di questa speciale razza di capra (la stessa cara alla nonna di Turiddu) tanto da spingersi alla ricerca di esemplari da comprare. Un’impresa rivelatasi più ardua del previsto, portata a termine grazie alla sua ostinata perseveranza. Il rischio d’estinzione per la capra girgentana, infatti, era già molto concreto, ne rimanevano circa 200 capi in tutta l’Isola.
Le grandi potenzialità economiche della capra girgentana
Quando guardi il mondo con gli occhi di un emigrato ti rendi conto che per recuperare qualcosa bisogna intanto darle reddito e dignità. E il discorso vale anche per le capre.
Così Giacomo Gatì si mise alla ricerca, purtroppo invano, di pastori che volessero realizzare per lui formaggi con latte di capra girgentana. Finché, all’ennesimo rifiuto, non cominciò da autodidatta a produrre lui stesso, insieme alla moglie Nina, il formaggio.
Studio, testardaggine e una ricetta della robiola regalatagli da un’amica fecero il resto. Accanto a lui altri allevatori ancora oggi impegnati attivamente nel recupero della capra girgentana, tra questi Giovanni Fazio e Ignazio Vassallo.
Gatì divenne ben presto il casaro di riferimento per tutti gli allevatori di capra girgentana, le sue ricette uniche e innovative, come quelle dei caprini a caglio vegetale ricevettero numerosi premi e riconoscimenti.
Il prestigio dei formaggi del caseificio Montalbo diede visibilità e valore economico al latte di capra girgentana e di conseguenza all’allevamento degli animali.
Nel 2009, però, Giacomo e Nina hanno venduto il caseificio a due ragazzi di Campobello di Licata, Davide e Valeria Lo Nardo. Sono loro che portano avanti ora questo progetto ambizioso, seppur ancora sotto la supervisione del maestro.
Me Cumpari Turiddu ha un’affezione particolare per questo Presidio Slow Food, grazie al quale detiene ininterrottamente dal 2013 il premio A Cheese – Locale del Buon formaggio.
Tra i suoi preferiti, oltre alla robiola e al semistagionato (presenti in molte ricette in menù), i caprini a caglio vegetale. Tra questi ricordiamo “ficu”, avvolto nelle foglie di fico e realizzato con caglio sempre dello stesso frutto, “ficarra”, uno stracchino affinato ancora in foglie di fico, “cinniri” (o cenerino) che riposa a lungo nella cenere del legno di Mandorlo e un intrigante formaggio alla birra.
6 Agosto 2021 at 16:27 /
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